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Domingo, Novembro 3, 2024

A Guerra Económica como estratégia indirecta

Raízes, “boas práticas” e quadro da guerra económica explicados numa síntese da autoria do nosso amigo Giuseppe Gagliano, presidente do italiano CESTUDEC.

Guerra economica come strategia indiretta

di Giuseppe Gagliano

La maggior parte delle azioni di guerra economica fanno parte della strategia indiretta, ossia non sono degli attacchi diretti e né devono essere divulgate. Nel caso di uno scontro tra potenze, si può ricorrere alla guerra economica in un momento di guerra militare (politica di blocco, chiusura delle vie commerciali, distruzione dell’apparato industriale nemico) o in tempo di pace (embargo, sanzioni di qualsivoglia natura, saccheggio tecnologico, razzia commerciale). Nel caso di uno scontro competitivo, si tratta più frequentemente di trappole tese all’avversario per farlo fallire nelle sue strategie di sviluppo, tagliarlo fuori da un mercato, indebolirlo a livello finanziario o commerciale, minacciare la sua immagine.

Le radici asiatiche dell’arte della guerra economica

Il Giappone è stato il Paese precursore delle nuove forme di dinamica economica. Per fuggire alla colonizzazione occidentale, i giapponesi hanno creato un’infrastruttura industriale guidata, in un primo tempo, dallo Stato e, in seguito, privatizzata. Sono stati adottati tutti i mezzi possibili per trovare delle soluzioni adeguate (copia di macchine; trasferimento di tecniche; spionaggio industriale).

Il Giappone del dopoguerra ha cercato di controbilanciare il costo della sconfitta. Approfittando del margine di manovra concessogli dai vincitori impegnati invece a contrastare la rinascita della sovversione comunista, Tokyo ha gettato le basi di una autentica economia da combattimento sotto la copertura della ricostruzione del Paese. I nuovi conglomerati industriali giapponesi avevano come missione quella di proiettarsi nel mondo per conquistare i mercati.

L’Impero del Sol Levante è così divenuto negli anni Ottanta la seconda economia mondiale, prima che il suo slancio fosse fermato da un’intesa tra gli Stati Uniti e l’Europa. La Corea del Sud ebbe un approccio abbastanza simile dopo la Guerra delle Coree: priva di industria (l’invasore giapponese le aveva costruite nei territori della Corea del Nord) la Corea del Sud ha inventato con autorevolezza un modello di sviluppo per fare fronte alla Corea del Nord, sua nemica.

La sua originalità risiede nell’aver pensato in una ottica di guerra economica: è infatti il primo Paese ad aver ufficializzato questa espressione nel proprio sistema educativo.

In cinquant’anni la Corea del Sud è diventata una delle economie più competitive al mondo e fa parte del ristretto club delle tecnologie difensive. In ogni caso, la dinamica più dimostrativa dell’interiorizzazione del concetto di guerra economica in Asia è rappresentata dalla Cina ormai.

Il filo conduttore che permette di comprendere l’evoluzione dell’Impero Celeste è molto antico e risulta dalla combinazione di due volontà: la ricerca del potere e la lotta contro gli invasori. La prima è stata teorizzata da Sun Tzu nel V sec. a.C.; la seconda da Mao Zedong nella sua lotta rivoluzionaria di trasformazione del Paese.

In origine, la cultura della guerra di Sun Tzu non aveva nulla di economico, quella di Mao neppure. Tuttavia, la prima ha messo in prospettiva le relazioni evolutive tra il forte e il debole e la seconda, nel XX secolo, l’ha arricchita con il concetto di dominato contro dominatore.

Nonostante i loro scritti siano stati tradotti in Occidente, questi non sono stati considerati come i fondamenti della nuova potenza cinese. Gli occidentali hanno annacquato Sun Tzu focalizzandosi sulla questione del potere rappresentato dagli scritti di Machiavelli; Mao Zedong è stato relegato al rango di tiranno sanguinario.

È stato perciò difficile in Occidente determinare i contributi fondamentali di questi autori nella conduzione di conflitti tra forti e deboli e nella possibilità che il dominato si possa trasformare nel dominatore. Alla fine del secolo XX, la Cina ha costruito un capitalismo di Stato che ha saputo trarre profitto dall’esperienza acquisita dal Giappone e dalla Corea del Sud, come dall’osservazione metodica della dissimulazione delle tecniche offensive americane in ambito commerciale.

I comunisti cinesi si sono creati il loro personale modello di guerra economica. Contrariamente ai giapponesi, i quali hanno protetto il proprio capitale industriale dalla penetrazione occidentale, i cinesi hanno attratto le imprese straniere verso zone economiche speciali, al fine di acquisire conoscenze utili al meglio e con ogni mezzo, soprattutto tramite il trasferimento di tecnologie. Con grande abilità, hanno saputo giocare sugli obiettivi a breve termine delle imprese occidentali e giapponesi.

Quando il mondo cinese si è aperto all’economia di mercato, la maggioranza dei dirigenti e dei finanziatori dei Paesi industrializzati hanno visto nel continente cinese un’opportunità commerciale incredibile: quell’impaziente desiderio di conquista – nel breve periodo – di nuovi mercati li ha portati a sottostimare le caratteristiche storiche, culturali e politiche della Cina.

In questa corsa per stabilirsi in Cina, era fuori questione prendere in considerazione delle informazioni scoraggianti. Gli appelli alla prudenza sono stati rari. Pur non essendo un sinologo esperto, non era impossibile richiamare alla memoria alcuni retaggi tipici di quel contesto. Il primo è un doloroso ricordo delle relazioni che il mondo occidentale ha mantenuto negli ultimi due secoli con la Cina. Quest’ultima ha vissuto molto male i tentativi di colonizzazione occidentale condotti contro un Paese sovrano considerato per secoli come il Regno di Mezzo.

A questa controversia altamente simbolica si aggiunse un secolo dopo l’opposizione del regime cinese al mondo capitalista. A questi elementi sono seguite delle conseguenze. Tutt’oggi esiste nell’ambiente dirigenziale cinese uno spirito di vendetta nazionalista ereditato dal passato imperiale nonché la volontà di non doversi sottomettere a un modello di società contrario ai principi del regime comunista.

Rifiutandosi di prendere in considerazione questo aspetto dell’eldorado cinese, gli ambienti finanziari e industriali occidentali hanno spianato la strada alla strategia cinese in materia di guerra economica.

Facilitata nei suoi progetti dall’aspirazione occidentale a commerciare e ivi stabilirsi, la Cina non ha avuto grandi difficoltà a nascondere la propria postura offensiva presentando un’immagine rassicurante della propria politica economica.

Consapevole dei rischi di una guerra economica frontale con gli Stati Uniti, la Cina ha mascherato le sue strategie di conquista commerciale con la fedeltà ai principi della globalizzazione del commercio.

Guerra economica e informazione

La guerra economica contemporanea ha superato lo stadio delle conquiste territoriali e commerciali che hanno cadenzato, in passato, i rapporti di forza. Oggi i vincitori non sono più quelli che dominano soprattutto attraverso la forza militare ed è qui che l’arte della guerra economica subentra come una leva strategica.

Il potere di uno Stato o di una multinazionale si esprime principalmente tramite la capacità di rendere gli altri Paesi dipendenti dalle proprie tecnologie, dalla propria influenza finanziaria e dal proprio influsso nella definizione normativa delle nuove regole dell’economia di mercato.

In altre parole, interpretare gli scontri economici è ancora più difficile rispetto ai tempi degli imperialismi, in cui si agiva a viso scoperto senza tuttavia ammettere alla Storia la violenza della propria conquista. A partire da allora, i colpi sferrati hanno generalmente una natura informativa e la loro identificazione è resa quasi indecifrabile a causa dell’estrema complessità della società dell’informazione.


(continuar a ler em: Guerra economica come strategia indiretta)


Exclusivo Tornado / IntelNomics


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