O Médio Oriente, nas últimas duas décadas, tem sido varrido por uma verdadeira “chaos operation” que altera radicalmente a realidade geopolítica herdada do século XX.
Aspecto maior desta alteração é a assunção pelos Estados da região do primado dos seus interesses próprios sobre quaisquer fantasias de “unidade islâmica” ou mesmo de “nação árabe”.
Ankara, Teherão, Riade ou mesmo qualquer pequeno emirado assumem agora, de forma cada vez mais clara e sem qualquer timidez, os seus interesses geoestratégicos próprios. Isto conduz ao surgimento de novos riscos, novas ameaças, novos conflitos e, claro, novos posicionamentos, novos alinhamentos e novas dinâmicas.
Esta fragmentação do “universo islâmico” da região faz-se à volta de três pólos (persas chiitas, árabes sunitas e os turcos sunitas), tendo cada um destes pólos interesses específicos e estratégias bem distintas de cada um dos outros.
Ameaçados pelo expansionismo turco (releia-se Lawrence da Arábia…) e pela “militância revolucionária” dos ayatolas de Teherão e seus ‘pasdarans”, os sunitas árabes procuram o apoio ocidental (americano e israelita) para sobreviverem a estas ameaças.
É esta evolução, que Trump soube explorar, que explica os recentes acordos, assinados em Washington, em que dois pequenos Estados árabes e sunitas reconhecem Israel. Uma evolução geopolítica que é também a segunda morte de Bin Laden e dos seus sonhos de “unidade” islamista. Quer se goste ou não, sob a batuta de Trump, o jogo mudou radicalmente.
Assim se confirma a velha máxima de que não é com os amigos que se fazem alianças (“se já somos amigos para que precisamos de uma aliança?” costumava perguntar o velho comandante Virgílio de Carvalho) mas sim com quem se partilham sérios inimigos…
Esta “surpresa” assinada em Washington só pode surpreender aqueles que… gostam de ser surpreendidos. A italiana Limes mostrou imediatamente que a Itália tem quem siga atentamente e saiba ler o que se passa na sua vizinhança, num texto de Niccolò Locatelli, ilustrado com dois soberbos mapas da nossa amiga Laura Canali.
L’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti è contro l’Iran e contro la Turchia
di Niccolò Locatelli | Limes | 13/08/2020
L’intesa raggiunta con la mediazione degli Stati Uniti consolida l’asse anti-persiano e rappresenta un avvertimento nei confronti di Erdoğan. E la Palestina? Di fatto è già dimenticata.
Con la mediazione degli Stati Uniti, Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno raggiunto un accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche.
Gli Emirati sono appena il terzo paese arabo dopo Egitto (1979) e Giordania (1994) a stabilire formalmente un rapporto con lo Stato ebraico, che è stato prima combattuto militarmente e poi isolato diplomaticamente dai vicini regionali per via del suo dominio sulla Palestina.
Sulla Palestina si registra una novità, per quanto temporanea: Israele si è impegnato a sospendere la dichiarazione di sovranità su territori assegnatigli dalla “Visione per la pace“, il piano del presidente Usa Donald Trump per risolvere il conflitto israelo-palestinese (eliminando di fatto la possibilità di uno Stato palestinese indipendente). A detta di Trump, invece di dedicarsi alla Palestina, il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si concentrerà sull’ampliamento dei rapporti “con il mondo arabo e islamico”.
Proprio nel riferimento al mondo arabo e islamico sta l’importanza dell’accordo raggiunto a coronamento di un processo di disgelo in corso da anni, che ha riguardato non solo gli Emirati ma anche l’Arabia Saudita. Questi tre paesi hanno in comune lo stesso protettore – gli Stati Uniti – e lo stesso rivale – l’Iran, potenza sciita non-araba che conta su una sfera d’influenza estesa fino al Mediterraneo. Gli Emirati possono fare da apripista a un’intesa in chiave anti-iraniana tra mondo arabo e Israele.
L’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti riguarda anche la Turchia. Sotto il presidente Recep Tayyip Erdoğan, Ankara si è resa protagonista di un’assertiva politica mediorientale e africana sostenuta idealmente dai richiami all’impero ottomano e finanziamente dal Qatar. Mentre il rapporto della Turchia con Israele attraversa attualmente uno dei momenti più alti di questo millennio, quello con Abu Dhabi è ai minimi termini. E non potrebbe essere altrimenti, dato che i due paesi hanno agende in conflitto ovunque, dalla Libia alla Siria, con Erdoğan che è rimasto l’unico sostenitore dell’islamismo politico della Fratellanza musulmana.
La mediazione di Trump è un segnale dell’apprezzamento di Washington per l’ambizioso principe ereditario Mohammed bin Zayed, leader di fatto della federazione emiratina. In una fase in cui l’Arabia Saudita – tradizionale cliente degli Stati Uniti – attraversa una forte instabilità legata al crollo del prezzo del petrolio e soprattutto alla scalata al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman (scalata lungi dall’essere compiuta). Abu Dhabi serve dunque agli Usa non solo contro l’Iran, ma anche per contenere la Turchia, membro Nato che non disdegna abboccamenti tattici con la Russia per ampliare il proprio margine di autonomia dalla superpotenza.
L’avvicinamento tra Israele e mondo arabo implicherà la progressiva scomparsa della questione palestinese dalle agende regionali. Una scomparsa già avvenuta di fatto, che però non può ancora essere esplicitata dai paesi arabi per motivi di politica interna.
Exclusivo Tornado / IntelNomics
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